Girovagando per il web, se a qualcuno di voi, com’era successo a me, venisse in mente di fare un regalo ad una persona che fa l’educatore, potreste imbattervi in qualche sito che, in maniera giocosa, mette in vendita oggetti con la scritta: “Io sono un educatore, qual è il tuo superpotere?”. Non ho niente contro il gadget in sé, sia chiaro. È solo che leggere quella frase, a me che sono educatore da molto tempo ormai, ha suscitato una riflessione: è la mercificazione del paradigma più dilagante (e fuorviante, inappropriato), rispetto alla figura dell’educatore.
Troppo spesso immaginato come un essere metà uomo e metà… Peter Pan (nel senso dell’eterno bambino, non per la capacità di volare). Nessuno sa dire che lavoro faccia (educatori compresi…) ma che, grazie al suo superpotere appunto, salverà i poveri e gli indifesi dalle angherie della vita. E sapete qual è il superpotere in questione nell’immaginario collettivo?
La vocazione.
Ora, chi mi conosce lo sa, sono un grande fan dei supereroi, pertanto mi ci tuffo dentro al parallelismo, per riflettere su una questione, a mio parere, davvero calzante. I due più iconici e potenti supereroi dei fumetti sono Iron Man e Batman: nessuno dei due, né Tony Stark né Bruce Wayne, sono dotati di alcun superpotere. Si tratta di due uomini intelligenti che, grazie alle loro doti (ok, ok, sono anche ricchissimi, ma credetemi, nel nostro caso, un’immensa ricchezza non sposterebbe di una virgola il ragionamento), hanno studiato, si sono formati nelle migliori scuole, hanno fatto esperienza sul campo, creando armature capaci di lottare e sconfiggere i cattivi. E tra un combattimento e l’altro continuano a formarsi ad allenarsi, ad affinare le loro doti, per essere sempre al passo con il villain di turno.
Lo combattono perché hanno la vocazione (ma sanno benissimo che quella da sola non basta) ad aiutare a proteggere l’umanità, sebbene non sempre ci riescano, ma hanno imparato benissimo a tollerare la frustrazione.
Ecco, per essere educatori bisogna essere intelligenti, utilizzare questa dote per costruirsi una formazione adeguata, ma anche per imparare dall’esperienza quotidiana, per comprendere che i libri, fondamentali, ci rivelano però solo una parte della verità. L’altra la scopriamo giorno per giorno. Man mano che si va avanti, poi, bisogna continuare a formarsi, dove con questo termine intendo anche un lavoro su noi stessi, costante, perché non potremmo aiutare nessuno se non ci conoscessimo profondamente (il perché agli educatori non sia imposto, come per gli psicologi ad esempio, un lavoro di supervisione personale, che vada oltre la preziosissima supervisione d’équipe, non mi è ancora chiaro), se non abbiamo contezza dei nostri limiti, dei nostri pregiudizi, se non impariamo a tollerare le frustrazioni con le quali ci confrontiamo ogni giorno ed a non viverle come sconfitte “tout court”, ma, ogni volta, come un punto di partenza.
È necessario che chi si avvicina a questo lavoro consideri “vocazione” e “buon senso” piccoli tasselli di un tutto che è fatto di molto altro. È fondamentale che gli educatori diano nella loro testa, prima ancora che nel mondo del lavoro, autorevolezza e dignità alla loro professione: sono dei professionisti.
Ma siccome anche Iron Man e Batman, nelle sfide più ardue, hanno dei validi ed altrettanto potenti aiutanti, non è pensabile che si possa fare tutto da soli.
Abbiamo bisogno del sostegno innanzi tutto dell’Università, che deve ripensare, a mio modesto avviso, in maniera sostanziale, l’idea stessa del tirocinio com’è intesa oggi: 4/500 ore spalmate in tre anni, in una qualunque struttura educativa, sono troppo poche. Non fanno cogliere l’essenza di cosa voglia dire fare questo lavoro all’interno di un servizio: bombardati da mille stimoli quotidiani, costretti a fare mille cose che nulla hanno a che fare con quello che si è studiato, gli educatori faticano, comprensibilmente per certi versi, a dare un senso.
Provo a lanciare una proposta (nulla di innovativo): riorganizziamo il piano di studi in maniera che sia previsto un intero semestre di tirocinio, con la possibilità di affidare ai tirocinanti qualche responsabilità in più con la collaborazione delle associazioni ospitanti. Altrimenti l’onere della formazione degli educatori alla prima esperienza spetta sempre a chi assume e delle volte è un costo che non ci si può permettere.
All’Università chiederei anche di formare gli studenti a scrivere: gli educatori non hanno proprio idea di come vada imbastita, ad esempio, una relazione di aggiornamento per il Tribunale per i Minorenni. Ora, se in merito ad alcuni aspetti certamente sarà il coordinatore ad indirizzare il lavoro in tal senso, sarebbe però auspicabile che gli educatori giungessero al lavoro già capaci di “maneggiare” un’adeguata terminologia “tecnica”, di esprimere un concetto in maniera (di nuovo) professionale e non come se scrivessero il tema alle scuole medie.
Lo dico con estremo rammarico, ma questo è lo scenario in cui si muove chi è chiamato a gestire educatori. La fortuna è che, dopo un iniziale momento di “smarrimento”, molti ragazzi si rendono disponibili ad imparare.
Il discorso è aperto, una soluzione ottimale ancora di là da venire, ma con la collaborazione di tutti spero che ad un certo punto (non troppo in là però…) alla domanda “Qual è il tuo superpotere?” un educatore possa rispondere: “Io sono un professionista”.