In amore si è eguali in potere,
diceva Hegel.
Credo che in amore si è uguali in potere nei termini dei diritti e del rispetto ed è un dovere di ognuno lottare perché sia così, ma al potere non bisogna dare sempre un’accezione negativa. Se messo a disposizione dell’altro, può avere un valore trasformativo. Il potere che ha l’educatore è di produrre il cambiamento utilizzando se stesso.
Quando ci troviamo di fronte ad una giovane donna che deve imparare a diventare madre, ma che è disincantata e diffidente, abbiamo il potere delle nostre competenze conoscitive e anche emotive. Sono loro che ci permettono di mostrarci attenti e maturi nell’accogliere l’altro anche nella sua immobilità.
Spesso mi chiedono: “Come possono fidarsi di voi le mamme che dovete valutare e osservare nella relazione con i figli?”. Mi rendo conto che la questione appare complessa e ambivalente: vogliamo accoglierle e farle sentire a casa ma abbiamo il dovere di valutarle e scrivere relazioni sull’andamento del loro percorso. Come possono coesistere queste due realtà?
Sembrerà assurdo ma credo che proprio qui, in questo passaggio, entri in gioco il potere trasformativo: ciò che appare come un ostacolo è in realtà un pungolo utile ad assicurare una trasformazione. L’educatore deve tollerare la fatica di dare limiti e regole e ogni volta che entrerà in conflitto con l’altro perderà un poco del suo amore, ma guadagnerà un passaggio generativo. Il limite è trasformativo quando viene dato per potenziare il desiderio nell’altro, perché sono convinta che l’altro nella sua profondità sappia riconoscere sia quando l’educatore sta agendo per il suo bene sia quando pretende di essere un modello di verità.
Da anni diciamo che dobbiamo dare il buono esempio, ma io direi ad ogni mamma e bambino con cui lavoro di non prendermi come esempio perché ognuno è se stesso ed ha una storia peculiare. È fondamentale, però, che noi educatori riusciamo ad essere la testimonianza di un altro modo di vivere. Il nostro compito non è spiegare il senso e le pratiche di una vita migliore, ma è testimoniarne la possibilità con la nostra presenza.
Nessuno di noi dovrebbe avere l’arroganza di definire come l’altro debba essere, dobbiamo smettere di dare risposte e verità ma cambiare la nostra postura educativa e aprire domande agli altri e per primo a noi stessi.
Le cadute dell’altro ci deludono e si vive l’impotenza di non avere trovato l’accesso per essere di aiuto, ma talvolta, quando smettiamo di guardare e mettiamo i nostri occhi altrove, quella caduta diventa una proposta per rialzarsi in autonomia. La nostra mano non è più tesa verso l’altra, eppure c’è, l’altro la sente nella sua, ben salda e presente, e si rialza con l’occasione di un cambiamento. Basti pensare che i bambini e le bambine che hanno abitato la comunità in questi anni hanno quasi sempre iniziato a camminare quando noi educatori eravamo girati.
La forza che riconosciamo ai nostri ospiti, nonostante la frustrazione delle involuzioni e delle resistenze, è quella che poi sarà la loro vera alleata. Quante volte avrei voluto rispondere alle domande desiderose di cura e presenza immediata e invece ho dovuto scegliere cornici e limiti, fermezza e talvolta durezza, facendomi detestare mentre stavo amando: è nell’ambivalenza del nostro essere educatori che gioca il potere del cambiamento.
L’educatore ha il potere di introdurre una promessa: se tu oggi riesci a rinunciare a ciò che ti sembra ti faccia sentire libero, domani sarai davvero libero e potrai raggiungere la destinazione per abitare la vita con i tuoi figli.
Il conflitto tra accogliere ed educare è un dono di Dio, terreno fertile per nuovi fiori.