Negli anni di professione educativa si impara che nella vita delle persone si entra chiedendo permesso e solo quando l’altro decide di aprire la porta e farci entrare, bisogna muoversi in punta di piedi.
Stiamo danzando in uno spazio non nostro, di qualcun altro, dobbiamo essere in grado di tendere la mano nel momento giusto e di non lasciare la presa quando le cose si fanno più complicate. Allo stesso tempo, dobbiamo fare un passo indietro quando il momento è maturo, quando l’altro è pronto per compiere il suo assolo.
Provando a danzare questi passi, da un anno Fondazione Arché, con le sue operatrici, entra quotidianamente in carcere con il progetto “Oltre la pena“.
In questo anno abbiamo incontrato sguardi, sfiorato vite, sentito il dolore. Un dolore gridato, sussurrato o taciuto, un dolore che ti arriva dritto e che ha il sapore di solitudine.
Fondazione Arché, che da sempre si occupa di genitorialità, ha deciso di entrare negli istituti di pena iniziando ad occuparsi delle mamme-detenute con i loro bambini accanto, delle madri detenute senza i loro figli vicino e, più in generale, delle donne in carcere.
Quotidianamente, le operatrici di Fondazione Arché entrano in Icam aiutando i nuclei mamma-bambino presenti, provando a sostenere le madri recluse in un percorso di genitorialità complesso e accompagnando i minori in un momento estremamente delicato della loro vita.
Realizziamo all’interno delle sezioni femminili del carcere di San Vittore e del Carcere di Bollate uno “sportello” a supporto della genitorialità a distanza e incontriamo, fuori dalle mura detentive, in Cascina Cuccagna, un gruppo di donne in misura alternativa alla detenzione, costruendo per loro e con loro uno “spazio di parola”.
Entrando in carcere siamo state travolte da un’esigenza fortissima di ascolto.
Le donne, madri, incontrate in questi mesi, ancor prima di domandare aiuto, ci hanno chiesto di essere ascoltate e non solo sentite.
Si sente profondo il bisogno di queste signore di essere viste e riconosciute in quanto donne e madri, non solo circoscritte al ruolo di detenute e legate inesorabilmente al reato commesso.
Hanno la necessità di essere guardate come persone detentrici di una storia, di qualcosa da dire e da raccontare, se solo qualcuno fosse disponibile ad ascoltare.
Aiutare queste donne a disancorarsi dalla convinzione di essere il reato che hanno commesso, identificandosi solo come detenute, diventa cruciale affinché si riconoscano e possano legittimarsi come persone e possano avere la possibilità di costruire o ri-costruire una relazione madre-figlio che può aver subito delle piccole o grandi fratture.
Porre l’attenzione in questa direzione le può sostenere a rivolgere lo sguardo verso l’esterno e quindi verso il futuro.
Fondazione Arché non vuole lavorare con le detenute-madri soffermandosi solo sul perché del reato commesso, ma vuole affiancarle e sostenerle sul piano della consapevolezza in relazione all’effetto che il reato e conseguentemente la detenzione, hanno avuto sui loro figli e sul loro essere madri e donne.
Dall’ascolto di queste storie, di queste donne in carcere e di queste madri, proviamo a lavorare insieme su quello che è stato, che è e che sarà, affinché lo sguardo verso l’esterno e il futuro possa sostenerle in un percorso di consapevolezza e riappropriazione di sé e della propria unicità.